Perché il nonno è morto prima del mio compleanno?
Non ci sarà quando io farò la prima comunione, non ci sarà quando farò il compleanno, non ci sarà quando….». E da lì un elenco di occasioni nelle quali il nonno non sarà presente. Perché il nonno, nella notte, ha fatto il suo transito. Il Signore è tornato e lo ha preso con sé. Così quando il papà gli ha detto che il nonno non c’era più, Giuseppe di appena otto anni, con la disarmante semplicità dei bimbi, ha colto immediatamente il dramma della morte: l’assenza.
Quel non-esserci-più che è l’incommensurabile tragedia della partenza di qualcuno che amiamo. Perché la vita continuerà, ci saranno altre feste, altri dolori, altri Natali, altri compleanni, ma niente sarà come prima, perché qualcuno mancherà. Il nonno sarà assente, Giuseppe avverte bene il dramma di non poter crescere in sua compagnia.
Mi ha colpito tanto il racconto della lista dei ‘non ci sarà’ di questo piccolo, perché è la protesta per un’ingiustizia subìta che non può passare sotto silenzio. È l’accusa, al modo di Giobbe, di chi protesta e pone Dio sotto accusa: ma non t’accorgi di me, di come soffro, dell’ingiustizia che sto patendo?
Anche se non direttamente rivolto a Dio, Giuseppe protesta in ultimo contro di lui, contesta l’irragionevole presenza della morte nella vita degli uomini. Protesta per un futuro senza qualcuno. Perché è vero che possiamo immaginare il futuro solo insieme a coloro che amiamo. La morte di una persona amata sembra tagliare via, in un lampo, il domani progettato e sognato, e l’assenza diventa vertigine del vuoto che coglie quando si deve immaginare il ‘dopo’ senza chi è partito per un altrove al quale non ci è dato accesso. Il lamento di Giuseppe, il lamento di Giobbe: la protesta di ogni uomo e di ogni donna che si trova davanti al dolore della perdita.
Giuseppe è un bimbo fortunato: la sua famiglia gli ha trasmesso la fede, conosce l’allegria della vita in parrocchia, l’amicizia con gli uomini di chiesa (uno zio vescovo e uno prete), insomma è circondato da un ambiente che da sempre gli ha parlato di Gesù, di questo amico presente in ogni situazione della vita. Aveva incontrato la morte della bisnonna, aveva già fatto i conti con la mancanza.
E anche questa volta i genitori hanno voluto che salutasse il nonno prima che fosse tumulato, non hanno avuto timore di far accostare questo piccolo alla salma del nonno, accanto alla quale ha pregato insieme gli adulti, rispondendo alla recita del rosario in maniera partecipe e serena, ultima preghiera prima dell’ultimo sguardo ad un corpo che da lì a poco sarebbe stato deposto nella terra, ad attendere. Ha partecipato alle due Eucaristie di commiato insieme alla famiglia, sereno, composto, rassicurato, pur nel dolore, dalla serenità che i suoi gli hanno comunicato: quel saluto è un arrivederci.
Il nonno che non ci sarà per la sua prima comunione, sarà presente in maniera nuova, percepibile nella fede, ma non meno reale di quella fisica. La liturgia della Chiesa risponde al suo modo alla protesta di Giuseppe: il nonno ci sarà.
Ci sarà nelle grandi occasioni e in ogni momento della vita del nipotino, più di prima, meglio di prima, libero da malattie e dolori, sciolto dai legami del peccato è ora presenza benedicente e vicina. Ci sarà fino al momento in cui nonno e nipote si ritroveranno, con tutti, proprio tutti, quelli che gli avranno fatto compagnia su questa terra.
E mentre penso al bimbo seduto in prima fila a un paio di metri dalla bara del nonno, prego per tutti quei bambini ai quali è stata negata la possibilità di questo ultimo saluto pensando di proteggerli, così, dallo scandalo della morte. Prego perché anche loro conoscano la ‘normalità’ della vita che è fatta anche del morire. Perché solo affrontando a viso aperto la morte, si può in qualche modo lenire il dolore dei tanti “non ci sarà”.
su: Avvenire, 15 febbraio 2022
La testimonianza dell’attrice Beatrice Fazi, attrice
CAMBIATA DALLA LUCE DI UN OSTENSORIO
intervista a cura di Mimmo Muolo (Avvenire 24/09/2022)
Che cosa è successo?
Una sera, in un periodo particolarmente buio, in cui avevo anche deciso di smettere di fare l’attrice, camminando lungo via del Corso, ero stanca e cercavo un posto dove sedermi. Ho visto una chiesa aperta e sono entrata. Mi sono seduta presso la porta di ingresso e in quel momento era in corso l’adorazione eucaristica, una pratica religiosa che avevo sempre considerato una cosa vuota, insignificante.
E invece?
E invece a un certo punto, mentre fissavo l’ostensorio, la luce che emanava mi ha colpito gli occhi e ho cominciato a piangere. Ho avuto la certezza che nell’Ostia esposta ci fosse una presenza viva, perché un oggetto inanimato non può colpirti così. E mi si è sciolta la rabbia che avevo dentro. È stato come sentirsi abbracciata da un padre, che mi diceva: “Figlia mia, finalmente sei tornata da me”.
Qual era stato il suo vissuto religioso fino a quel momento?
Avevo rifiutato l’educazione cattolica ricevuta in famiglia e mi ero convertita al buddismo. La traumatica esperienza dell’aborto, a vent’anni, mi aveva profondamente ferita e quando sentivo Giovanni Paolo II e Madre Teresa parlare di aborto crescevano in me lo sgomento e il livore. Ma quella sera c’è stata una svolta ed è iniziato un cammino diverso.
Questo significa che la conversione non è stata immediata?
Sono scappata via e ho ricominciato la vita di prima, ma il Signore mi ha come presa per mano e accompagnata lungo tutti i passi, anche quelli apparentemente “fuori strada”. Ho incontrato un uomo, Pierpaolo, attualmente mio marito. Era un avvocato che veniva spesso nel bistrot dove lavoravo. Ma era ateo e nichilista. Tra l’altro sposato in chiesa anche se il matrimonio era poi fallito. Sono rimasta incinta e questa volta desideravo avere quel bambino. Un giorno una mia amica ci ha chiesto ospitalità, perché veniva da fuori e doveva andare alla catechesi di don Fabio Rosini sui Dieci Comandamenti. “Perché non vieni?”, mi ha chiesto.
E lei ci è andata.
Sì, ma con il mio senso di colpa. Aspettavo un bambino, avevo paura che potesse succedere qualcosa. Sono andata quasi per senso scaramantico, per imbonire una divinità che immaginavo potesse vendicarsi di me che avevo ucciso anni prima la creatura che avevo in grembo. Invece mi sono confessata, proprio da don Rosini. Ricordo la scena: lui stava per assolvermi anche dall’aver abortito, perché ne aveva la facoltà, quando io gli ho detto che convivevo more uxorio con un uomo sposato e divorziato e che non ci saremmo sposati neanche civilmente. È rimasto con la mano a mezz’aria, quasi paralizzata. E con dolcezza mi ha detto che non poteva assolvermi, che il matrimonio è immagine delle nozze di Cristo con la Chiesa e che avrei dovuto astenermi dalla comunione.
Le è crollato di nuovo il mondo addosso…
In realtà quel “no”, mi ha salvato la vita, perché se avessi avuto il “certificato di buona condotta”, non avrei capito la grandezza del dono. Invece così si è acceso il desiderio vivo di conoscere questo Dio così pieno di amore per me.
Che cosa le disse don Fabio?
Mi disse: “Non puoi prendere l’Eucaristia, ma sei chiamata ad essere santa. E se sei qui è perché Dio ha un progetto per te. Dio è sempre fedele. Lui stesso ti parlerà, perché la tua storia è stare dentro la Chiesa”. Tutto quello che è successo poi mi ha confermato che aveva ragione, anche se il percorso non è stato facile. A un certo punto avevo anche deciso di lasciare Pierpaolo, che proprio non ne voleva sentire di sottomettersi all’autorità della Chiesa e di chiedere ad esempio la nullità del suo matrimonio. Ma come mi aveva consigliato don Fabio, mi sono messa davanti alla Parola di Dio e un giorno ho letto un passo di San Paolo che raccomanda alle mogli dei non credenti di restare accanto ai loro mariti. È stata un’illuminazione. A Natale Pierpaolo mi ha accompagnato a Messa e da lì è iniziato anche il suo percorso di conversione. Il 7 luglio del 2008, dopo la nullità del suo precedente matrimonio, ci siamo sposati e quel giorno, insieme con lui sono tornata a fare la comunione.
Che cosa significa oggi per lei l’Eucaristia?
Continuo a sperimentare, personalmente, nel rapporto con mio marito e con i figli, nel mio lavoro di attrice, che quella medicina per il mio spirito è estremamente potente. Quando partecipo alla Messa e mi comunico, sento che Gesù si sta dando tutto per me e che mi accoglie come sono, con lo stesso amore di quella sera in cui stava lì ad aspettarmi nell’Ostia dell’adorazione.
Un nuovo prete per la nostra diocesi di Rimini.
- Una breve biografia
Mi chiamo Marco Evangelisti, ho 27 anni, sono nato a Cesena il 5 dicembre del 1994 e prima del mio ingresso in seminario ho sempre vissuto a Santarcangelo di Romagna. Dopo aver conseguito la maturità al Liceo delle Scienze Sociali “M. Valgimigli” di Rimini all’età di 18 anni, nel 2013 sono entrato in Seminario a Rimini dove ho vissuto gli anni di propedeutica, per poi iniziare nel 2015 gli anni di teologia al Pontificio Seminario Regionale Flaminio “Bendetto XV” in Bologna. Mi sono laureato in teologia nell’ a.a. 2019/2020 con una tesi in psicologia generale e della religione dove ho approfondito la teoria dell’attaccamento nell’esperienza di Dio.
Sono diventato diacono il 19 settembre 2021 e sto continuando a svolgere il mio servizio nella parrocchia S. Andrea Dell’Ausa – Crocifisso a Rimini dove sono inserito già dal 2018. In parrocchia, oltre alle cose “ordinarie”, mi sono occupato in questi anni principalmente dello Scoutismo.
Ho iniziato in questi giorni a Loreto un Master di “Accompagnamento Spirituale e Relazionale dei giovani”, perché desidero acquisire più competenze per la cura delle persone e in particolare per l’accompagnamento spirituale dei giovani.
- Raccontaci com’è maturata la tua vocazione
La mia vocazione è nata e maturata in parrocchia a Santarcangelo, facevo fin da piccolo parte del gruppo ANSPI e del coro della parrocchia, mi è sempre piaciuto cantare, fare teatro ed esperienze di oratorio.
Nel 2011, all’età di 16 anni ho partecipato al campo diocesano “Nephesh” di Azione Cattolica: in quel contesto ho sentito che Dio mi chiamava a mettere a disposizione la mia vita per gli altri.
Dopo quel campo, ho iniziato un cammino spirituale accompagnato da don Stefano Sargolini (allora era il viceparroco della mia parrocchia) e sono stato guidato e aiutato anche dai miei educatori e dagli amici coetanei che partecipavano ai gruppi parrocchiali insieme a me.
Grazie anche all’esempio, al sostegno e all’affetto dei miei sacerdoti, oltre a don Stefano, vorrei ringraziare tantissimo anche il mio parroco don Giancarlo Del Bianco, ho maturato l’idea di diventare prete.
A settembre del 2013 sono entrato in Seminario dove sono stato accolto e accompagnato dai formatori.
Gli anni di Seminario sono stati anni di crescita per me, perché sono entrato con tanto entusiasmo e la mia fede in Gesù era una fede molto giovane, entusiasta e guidata dalle emozioni che provavo in quel momento, quindi allo stesso tempo era anche un po’ fragile… come del resto la mia persona.
Mi piace sempre dire che all’inizio del seminario la mia relazione con Gesù era ancora “bambina” e poi nel corso degli anni, grazie al cammino formativo, alle esperienze vissute e alle persone incontrate è diventata una fede più adulta e credo più sicura.
Il cammino di seminario, seppur molto bello e ricco di opportunità, non è stato una passeggiata, ci sono stati anche diversi momenti difficili nei quali non sono mancate crisi e occasioni di mettere in dubbio tante cose… tuttavia rileggendo oggi la mia storia devo dire che alcune di quelle difficoltà sono servite a farmi crescere, non solo nella fede ma anche come persona. Prezioso in questi anni è stato l’aiuto dei miei compagni, dei miei amici, dei miei formatori e dei parroci riminesi che mi hanno accolto e accompagnato.
- Diventare prete nel mondo di oggi quali sentimenti ti suscita?
Sono felice di diventare prete perché penso che per la mia vita sia una grazia e un dono immenso e spero possa esserlo anche per la vita di altre persone, tuttavia sono consapevole che diventare prete nel contesto in cui viviamo sarà una bella sfida. Il mondo di oggi, lo dicono anche gli psicologi, è molto più complesso. Una volta la società era più ordinata, i ruoli delle persone erano più chiari… oggi è tutto più in subbuglio e la percezione che ho, soprattutto stando con i giovani, è che manchino delle prospettive che suscitino in loro dei desideri. Con questo, non fraintendetemi, non voglio dire che oggi sia peggio di ieri, però sicuramente occorre liberarsi dai paradigmi del passato perché una volta andavano bene… ma oggi occorre rimettere in discussione con creatività alcune cose che in passato funzionavano, senza perdere di vista l’Essenziale: Gesù e la Chiesa.
- Cosa ti porti dietro come bagaglio dopo le prime esperienze pastorali come seminarista e come diacono?
Dopo gli anni che ho vissuto, mi porto dietro un bagaglio ricco di Grazia di Dio: tante sono state le esperienze e tante le belle persone incontrate. Ho avuto anche l’occasione di conoscere tante realtà presenti nella nostra Diocesi: il Presbiterio, l’ANSPI, l’Azione Cattolica, l’AGESCI, l’Ufficio Missionario, la Pastorale Giovanile, il coro della pastorale Giovanile, la Comunità di Montetauro, i Monasteri, gli Ordini religiosi, la Comunità Papa Giovanni XXIII, le Parrocchie…
Di tutte queste ricchezze sono tanto grato al Signore.
- Se dovessi sintetizzare con una frase del Vangelo il messaggio che vuoi portare nel tuo impegno pastorale, quale sceglieresti?
Sceglierei la frase che ho messo anche nel ricordino della mia ordinazione: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Credo che il valore delle relazioni e delle amicizie sia oggi fondamentale nell’impegno pastorale. Percepisco che le persone hanno bisogno di sentirsi volute bene dai loro pastori e dalla Chiesa, perché in un mondo che va sempre più verso l’individualismo, c’è bisogno di sentirsi amati… e chi può amarci più di Gesù? Proprio per questo ho scelto come immagine l’icona copta del VII sec. “Gesù e il suo amico”, perché penso che l’amicizia sia il motore dell’amore.
- Quale messaggio vorresti comunicare e condividere in particolare con i giovani nel giorno della tua ordinazione?
In un mondo creato per noi da Dio Padre, dove noi siamo suoi figli ed esistono tante cose belle. In un mondo dove Gesù ci ha donato la sua vita per salvarci… anche se a volte il male e le sofferenze sembrano avere la meglio: non è così, fidatevi! Provate a seguire Gesù per credere.
L’augurio e l’invito che vi faccio è lo stesso che mi ha fatto personalmente il Vescovo qualche anno fa, riprendendo le parole dell’Apostolo Paolo: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm 12, 21).
Oratorio chiuso per maleducazione?
Oratorio chiuso, don Mazzi fa discutere
COLLOQUI COL PADRE (don Stefano Stimamiglio, direttore di Famiglia Cristiana)
Ho raccolto due fra le varie lettere – che mi sono giunte in merito all’editoriale di don Antonio Mazzi sul fatto di cronaca locale legato alla chiusura (temporanea, come si è saputo dopo, e non a tempo indeterminato come era stato inteso) dell’oratorio di Cicognara, provincia di Mantova, ma diocesi di Cremona, da parte del locale parroco, don Andrea Spreafico a causa di ripetuti e cattivi comportamenti (dettagliati in un cartellone pubblicato fuori dall’oratorio) da parte di numerosi utenti, piccoli e grandi.
Don Mazzi, con la sua usuale e da tutti amata verve educativa, criticava la decisione del sacerdote e così scriveva: «Anche io sono molto preoccupato, non per il cattivo contegno dei maleducati, ma per il metodo usato dal prete arrabbiato dell’oratorio. Vivendo, io, tra ragazzi ben più difficili di quelli di Cicognara, non ho chiuso le comunità, ma le ho raddoppiate e ho preparato gli educatori, non i sorveglianti o i custodi. Perché il problema sta tutto qui, cioè nella presenza di adulti preparati che non vengono per “tenere in ordine”, ma per aiutare i giovani a credere più nella vita sana, sportiva, educata e amichevole».
Quale atteggiamento avere di fronte alla maleducazione e alla mancanza di rispetto in luoghi aperti a tutti e caratterizzati da un progetto educativo preciso, come quello di un oratorio parrocchiale?
Tenerlo aperto, aumentando alcune modalità di controllo e investendo in “formazione”; o chiuderlo per un giorno, come poi è successo? Don Andrea ha scelto la seconda via, aprendo così un interessante dibattito. Da quanto si legge nelle cronache locali, ha preso quella grave decisione come atto estremo (e «senza nessuna rabbia», precisa lui) per richiamare con un gesto clamoroso piccoli e grandi a una forma di conversione, invitandoli così a un contegno e a una forma di rispetto adeguati al luogo e alle persone che lo frequentano. Sembra che la scelta abbia pagato: l’oratorio adesso è riaperto.
Gentile direttore, vorrei esprimere un pensiero sulla riflessione di don Antonio Mazzi a riguardo del sacerdote che ha chiuso l’oratorio. A don Mazzi sembra una cosa assurda in quanto nella sua comunità ha dei casi sicuramente molto più gravi, però vorrei far notare che proprio da questa mancanza di educazione nell’oratorio di Cicognara cresceranno quei ragazzi che un giorno saranno accolti da Exodus … Don Andrea Spreafico ha tutto il mio sostegno. PAOLO DA LODI
Egregio direttore, scrivo a proposito dell’articolo di don Antonio Mazzi, in riferimento al provvedimento del parroco di Cicognara per la chiusura dell’oratorio. Premetto che non si mette in discussione l’efficacia educativa di don Mazzi all’interno delle comunità dove opera e dove sono presenti ragazzi violenti che hanno ucciso, assaltato banche e stuprato.
Il problema a mio avviso è un altro: esiste ancora l’autorità che legittima il rispetto delle regole, che garantisce l’ordine degli ambienti frequentati, l’uso della civiltà nei comportamenti interpersonali? Il fatto che si giustifichino trasgressioni di ogni tipo all’interno di contesti educativi (anche nella scuola i docenti non possono più proferire critiche, si buttano addosso a loro scarpe e altro) fa comprendere che l’emergenza educativa ha raggiunto livelli insostenibili.
La cosa ancor più grave è che a questi comportamenti lesivi delle buone maniere, si accompagnino comportamenti squalificanti di adulti che, invece di contribuire alla correzione, acuiscono la disattesa di regole.
A don Mazzi direi che ha fatto proprio bene don Andrea Spreafico, parroco di Cicognara, a interdire l’accesso all’oratorio: è venuto il momento di non interpellare gli psicologi o gli psichiatri e neanche i sociologi sulla questione giovanile, ma di rendere ancora credibile e rispettabile chi esercita funzioni educative e formative.
Mi spiace per lei, don Mazzi, non si deve estendere la realtà di una comunità dove lei opera, al contesto di una scuola e tanto meno di un oratorio. GERMANA MALCISI
don Andrea Spreafico
I cantieri di Betania. Il Cammino sinodaIe continua.
Il documento della CEI per il secondo anno del Cammino sinodale (leggi)
La libertà sessuale dei ragazzi.
«La libertà sessuale dei ragazzi. Com’è difficile trovare le parole per parlarne»
Che cosa si può dire ad una ragazza di 18 anni che ti viene a raccontare, con libertà e forse con candore, che è andata a letto alcune volte con un suo coetaneo non per amore, ma per provare. Che dopo di ciò, non lo ha più cercato perché temeva che lui iniziasse a provare qualcosa per lei. E che non può dirlo ai suoi genitori perché, secondo lei, ne farebbero una tragedia esagerata?
Come suora che lavora in oratorio e prova a stare accanto agli adolescenti, mi sono sentita di richiamarla a un esercizio della sessualità più ragionato e meno banale, ma mi sono accorta che le mie parole risultavano stonate anche a me, perché non facevano presa su questa ragazza, per altre cose così matura e profonda.
Mi sembrava di ripetere qualcosa che sì, è giusto e riafferma un valore, ma forse non coglie qualcosa dei ragazzi di oggi. Io ho solo una decina di anni più di questa ragazza, ma stento a trovare le parole giuste. (suor Cristina)
risponde Fabrizio Fantoni, Psicologo e psicoterapeuta (su F.C. 8/2022)
Cara suor Cristina, è già un bene che questa ragazza sia venuta a parlarle, forse sentendo che avrebbe trovato in lei un’ascoltatrice attenta e sensibile, prima ancora che un adulto che dice la sua, anche a fin di bene.
Questa ragazza ha capito che lei l’avrebbe ascoltata fino in fondo, senza interromperla e senza dare giudizi. Perché solo con questo nostro silenzio senza interruzioni possiamo pensare che i ragazzi saranno poi disponibili ad ascoltare quanto gli diremo.
Perché questa adolescente è venuta a raccontarle la sua storia?
Forse per mettere ordine nei suoi pensieri, forse perché ha intuito che la comunicazione attraverso il sesso può attivare sentimenti ed emozioni intensi che vanno oltre il piacere fisico e la novità dell’esperienza. Tant’è che si è ritirata quando si è accorta che il ragazzo iniziava a sentire per lei un’attrazione non solo sessuale.
Proprio da questo forse si può partire per rendere più vicino a questa ragazza l’invito a una sessualità “meno banale”, come lei giustamente sottolinea.
I gesti del sesso sono “parole” forti e intense, rivolte a un’altra persona. Sono incontro con una persona fisicamente e mentalmente differente.
Che cosa voleva dire questa ragazza? Ha tenuto conto che quanto lei comunicava a quel ragazzo poteva diventare l’occasione per uno scambio profondo? Che in quei momenti guardarsi negli occhi apre una prospettiva più ampia che si può cogliere soltanto se lo scambio riguarda anche i sentimenti reciproci?
Allora con questa ragazza si può cercare di ricordare che il piacere provato, che sembra già grande, può esserlo molto di più se si colloca all’interno di una prospettiva di amore: una conoscenza profonda dell’altro, uno scambio di pensieri e di emozioni, una scelta reciproca, non confinata nello spazio angusto dei pochi giorni trascorsi insieme.
Allora forse si aprirà in questa ragazza una prospettiva differente: una disponibilità alla riflessione morale, una rinnovata profondità.
Portiamo Gesù, ma non siamo taxi
Mirella Fabbri e Cristian Castellani
estratto da
domenica 27 febbraio 2022
“Portiamo Gesù ma non siamo taxi”
L’ESPERIENZA. Ministri straordinari della Comunione eucaristica: a contatto del malato, non da soli.
“Il servizio di Ministro straordinario dell’Eucaristia è un gesto di carità della Chiesa “perché non restino privi della luce e del conforto di questo sacramento i fedeli che desiderano partecipare al banchetto eucaristico e ai frutti del sacrificio di Cristo” (Immensae caritatis).
Nelle comunità della Diocesi di Rimini abbiamo il dono di avere alcuni Ministri Straordinari della Comunione Eucaristica chiamati a portare la S. Comunione agli infermi e agli anziani che non possono partecipare alla Messa in chiesa; e aiutare il sacerdote nella distribuzione dell’Eucarestia durante le celebrazioni in chiesa.
Mirella Fabbri e Cristian Castellani sono due Ministri Straordinari della Comunione Eucaristica, entrambi della parrocchia del Crocifisso di Rimini.
Cosa succede quando bussate alla porta di un ammalto?
Mirella: Tutte cose molto belle: ti senti accolto, aspettato non come persona ma come strumento che porta in quella casa, a quelle persone la cosa più importante che hanno: “Gesù Eucaristia”
Cristian: I malati che mi sono stati donati mi aspettano, qualcuno ha già preparato la candela accesa e il crocifisso: aspettano il Signore e anche la comunità. Perché non è Cristian che va a casa loro, ma è tutta la comunità, ed io come primo gesto porto sempre loro il saluto della comunità. Per tutta risposta, il volto di molte persone si illumina. Molto spesso quando sono al culmine della malattia e del dolore sono volti trasfigurati e faticano a riconoscerti, ma se ti avvicini li vedi illuminati e questo incontro procura una gioia immensa.
Come avete intrapreso questo servizio?
Mirella: Suor Bertilla svolgeva il servizio della Comunione in parrocchia proprio agli ammalti della mia zona. Ventuno anni fa mi ha semplicemente confidato che sentiva i primi acciacchi della vecchiaia. «Ho bisogno di qualcuno che prenda il mio posto, vedo in te una persona giusta». Mi sono fidata del suo giudizio, e mi sono messa in cammino. L’«eccomi» di 21 anni ancora risuona nel mio cuore e nella mia vita.
Ad una condizione: sarei rimasta Ministro fino a quando ci sarebbero stati ammalati a cui portare Comunione. Il senso di essere Ministro straordinario dell’Eucaristia è arrivare nelle case dei malati”.
Cristian: Undici anni fa, l’allora parroco del Crocifisso, don Paolo Donati, mi chiese se fossi disponibile a diventare Ministro straordinario della Comunione eucaristica. Nella beata incoscienza ho detto sì, pensando che il servizio del Ministro fosse distribuire la Comunione durante le celebrazioni aiutando il parroco.
Al Seminario Diocesano durante la prima lezione del corso (del quale Mirella era una docente) ci illustrarono cos’era, cosa doveva fare e come incontrare i malati. La parabola evangelica del Buon Sammaritano, che vede, ha compassione e soccorre il viandante ferito e abbandonato, fu il trampolino di lancio di questa ‘avventura’.
Nel tragitto dal Seminario Diocesano a casa mia piansi prendendo coscienza della grande responsabilità contenuta in questo servizio. Ero tentato di non proseguire il cammino, ma ormai Qualcuno aveva già suonato al campanello e strattonato alla collottola e decisi di continuare. E fu la mia fortuna.
Mi si aprì un mondo immenso, al quale non avevo mai pensato: il malato e la sofferenza. In questi anni ho ricevuto ben più di quanto sono riuscito a dare.
Tanti incontri, tante persone: nella sofferenza ho rinvenuto il vero volto di Dio. Debbo ringraziare per quella proposta che dieci anni fa mi è stata fatta: è un dono. Ero partito mettendo una scadenza al servizio, dicendo che era temporaneo e poi avrei lasciato: avrei commesso l’errore più grande della mia vita.
Entrambi avete svolto il servizio anche presso l’ospedale “Infermi” di Rimini. Che esperienza è?
Mirella: Ho fatto servizio per molto tempo in ospedale: c’è un bisogno enorme, e persino la sola presenza del Ministro è significativa.
Cristian: Mi lascio prendere dalla paura, non quella che blocca bensì quel timore che ti stimola e tiene solerti. Prima di entrare nei vari reparti, emetto un bel sospiro perché mi sento indegno, quasi non ce la faccio. Poi guardo il volto del Signore nel crocifisso che ho di fronte e nella teca che ho in mano, e vado.
Quando partite per visitare un malato e la sua casa, la sua famiglia, quale pensiero vi guida?
Mirella: “Ogni volta mi sento uno strumento in mezzo a due cose: il desiderio dell’ammalato di ricevere Gesù eucarestia, ma anche e soprattutto l’esigenza fortissima che ha Gesù di arrivare in quella casa, in quelle abitazioni, da quelle persone con quei volti e quelle storie.
Il desiderio del malato è importante, ma è estremamente importante sentire l’esigenza di Gesù di entrare nelle case dei più fragili, che vanno accompagnati e sorretti.
Inizialmente ero molto concentrata su me stessa, sui piedi non degni di portare Gesù, sulle mani indegne di portare Gesù. Poi qualcuno mi ha aiutato ad alzare lo sguardo, a non guardare me stessa, ma Gesù che si fida di me, e si consegna a me in modo tale che io lo possa portare a chiunque lo desideri.
Cristian: È importante saper ascoltare, non arrampicarsi sugli specchi, con discorsi molto filosofici o teologici. Il silenzio stesso è parola guaritrice. Molto spesso incontro malati che pongono tante domande esistenziali: «Perché la malattia? Perché il dolore? Perché proprio a me? Dov’è Dio?». Cerco sempre di offrire una parola di conforto. Il primo passo è l’ascolto, e lo sguardo: le persone vanno guardate e ascoltate. Terminata la parte rituale, prima di accomiatarmi, gli ammalati manifestano dispiacere: «Mi raccomando, ritorna domenica prossima? Ci sarai sempre tu?». Anche con i familiari si instaura un rapporto, che prosegue anche quando gli ammalati sono deceduti. Resta un legame, un ricordo non di Cristian ma della comunità e di ciò che rappresento”.
Com’è stato possibile il vostro servizio durante la pandemia? Con quali limitazioni avete dovuto convivere?
Mirella: Per la verità, non ho mai smesso di portare Gesù Eucaristia perché sempre ci sono sempre stati ammalati che mi hanno chiamato anche durante la pandemia. Solo durante il lockdown è stato interrotto il servizio. Appena è stato riaperto, sono ritornata da ammalati e familiari con tutte le cautele del caso.
Anche oggi, il sabato pomeriggio è interamente dedicato a questo servizio”.
Qualcuno scherzando sostiene che fare il “taxi di Gesù” è facile. In realtà la vostra esperienza, Mirella e Cristian, ci fa comprendere che nel servizio del Ministro straordinario della Comunione eucaristica c’è qualcosa di ben più grande misterioso. Siete anche voi missionari.
Come avete vissuto la Giornata del Malato?
Mirella: Cercando di mettere al centro il più possibile le persone fragili. In chiesa sono state ascoltate le testimonianze di alcune persone che vivono la malattia in maniera positiva la malattia, ed è stata distribuita la Preghiera del Malato con l’immagine scelta per il 2022, invitando tutte le persone a consegnarla agli malati vicino a casa.
Nella Chiesa si parla dei malati facendo riferimento solo a chi desidera ricevere l’Eucaristia. I malati che desiderano Gesù Eucaristia sono sempre meno. Però non diminuiscono i malati. Questa situazione mi interroga: è forse giunta l’ora che il volto del Ministro straordinario cambi? Ad esempio, assumendo il volto del Ministro della consolazione per andar ed essere Chiesa, accompagnando gli ammalati che non domandano la Comunione. Si può essere Gesù che si fa loro vicino, cura le ferite come balsamo, e magari può anche succedere qualcosa.
Anche questa è una missione. Di fronte a noi non c’è solo il malato, ma tutta una famiglia, che incontri in un tempo difficile e con tante problematiche: anche questo è un momento di evangelizzazione.
Paolo Guiducci
Non scappare dalle persone che soffrono
NON SCAPPARE DALLE PERSONE CHE SOFFRONO
A volte ci avviciniamo a coloro che soffrono,
ma nei nostri cuori c’è una ribellione che acceca
e ci impedisce di vedere la luce di Gesù nella persona che soffre.
A volte possiamo utilizzare i poveri come oggetto della nostra carità
o della nostra competenza professionale
per affermare il nostro valore, per manifestare la nostra gloria.
Fratello mio, sorella mia,
queste poche righe vogliono dirti di non scappare dalle persone che soffrono e che sono ferite.
Osa avvicinarle, toccarle. Osa entrare in comunione con loro.
Allora scoprirai dentro di te e dentro di loro una sorgente di vita, dei semi di risurrezione.
È il grande segreto di Gesù e del suo Vangelo.
In ogni persona, non importa se ferita, indurita, autoritaria, crudele,
apparentemente chiusa a Dio e peccatrice,
c’è una sorgente nascosta di acqua viva pronta a zampillare.
Se tu cammini con Gesù su questa strada,
ti condurrà verso il povero, il debole, l’isolato e l’oppresso,
senza paura né disperazione,
senza collera né ribellione,
senza teorie né soluzioni belle pronte,
senza sensi di colpa né sentimenti di impotenza.
Per farti gustare la pace che nasce dalla comunione dei cuori
Gesù ti rivelerà il senso nascosto della sofferenza e delle tenebre
e come la gioia può sgorgare da tutto ciò che è ferito e spezzato.
Ti rivelerà che lui stesso è nascosto nel povero, nel debole e nell’oppresso.
Ti rivelerà che è nascosto anche nel povero, nel debole e nell’oppresso che è in te.
Ti rivelerà come riscoprire, rinnovare ricostruire e ricevere questa comunione d’amore e di fedeltà
che è l’origine e la sorgente di ogni vita, dell’unità e della pace.
Te lo farà scoprire come un seme piccolo, piccolo, capace di crescere per rinnovare il mondo.
Se vuoi, camminiamo insieme su questa strada;
con i nostri fratelli e sorelle che soffrono
in questo mondo diviso camminiamo insieme, con Gesù, nostro fratello prediletto,
per scoprire che è una strada di speranza.
Commento al Vangelo di Marco 7,31-37
su: LaParola.it (11 febbraio 2022 – B.V. Maria di Lourdes)
(di Francesca Favero)
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Ha 14 anni e non ci ascolta più
«HA 14 ANNI E NON CI ASCOLTA PIÙ. VORREMMO CHE ANDASSE DALLO PSICOLOGO»
Vorremmo che nostra figlia di 14 anni andasse da uno psicologo, perché non ci ascolta più. Da un anno circa non è più la stessa. Da bambina era brava e ci ubbidiva. Adesso invece è sempre nervosa, ci risponde male per ogni cosa. Non si riesce a farle fare niente in casa, anzi sembra che le sia tutto dovuto. Lascia in giro gli abiti, non distingue tra quelli usati sporchi e quelli lavati e stirati. Vuole solo uscire, o stare al cellulare tutto il giorno. Si veste come vuole lei, anche se noi genitori pensiamo che sia esagerata e non siamo d’accordo. Per non dire della scuola: è in prima superiore, ma non lo vediamo mai studiare. Forse uno psicologq. lo farebbe ragionare un po’. Lei cosa ne dice? (LORENA)
risponde Fabrizio Fantoni, Psicologo e psicoterapeuta, 3 figli
Cara Lorena, innanzi tutto va chiarito che lo psicologo non è il prolungamento dei genitori, che può convincere un adolescente là dove i genitori non riescono a farsi ascoltare, perché ha un linguaggio o delle tecniche “speciali” e particolarmente convincenti.
Lo psicologo serve quando bisogna cercare il senso dei comportamenti, con l’adolescente e i suoi genitori.
Serve, ad esempio, per capire che cosa l’adolescente sta comunicando a mamma e papà, alla luce di un duplice movimento: da un lato, c’è la presa di distanza dall’infanzia, che appare contemporaneamente come un’età da superare nettamente per diventare grandi, ma anche come una specie di “età dell’oro” in cui si viveva più facilmente.
Da questo punto di vista, vostra figlia, anziché crescere, sembra regredire a una condizione in cui pensa nardsisticamente di poter ottenere tutto, come se fosse ancora “Sua Maestà il bambino”.
Dall’altro lato, c’è la crescita e la definizione della ragazza che vuole diventare aperta alle amicizie, con un carattere dominante.
Forse vostra figlia si immagina come una persona che non obbedendo ai genitori, è libera da ogni vincolo. Come se essere adulti significasse fare quel che si vuole.
È necessario, invece, chiarire che diventare adulti significa entrare in una logica di scambio, in cui si riceve per quel che si dà: a scuola, al lavoro e anche nelle relazioni. A partire dalla famiglia.
Se non si dà qualcosa, non si può ottenere ed è forse da questa considerazione che dovreste partire nel rivedere i vostri atteggiamenti educativi.
Che cosa state dando a vostra figlia, sul piano degli affetti e su quello della partecipazione alla vita di famiglia?
E che cosa le state chiedendo? Tutto questo è cambiato rispetto a quando era bambina, o siete ancora fermi a considerarla come tale?
Lo psicologo può entrare in questa dinamica come una figura “terza” per capire insieme a voi le dinamiche profonde in gioco e le resistenze al cambiamento.
Il compito di farvi ascoltare da vostra figlia, però, rimane vostro.
(tratto da Famigia Cristiana n.3/2022)
Imparare ad amarsi
Da: Messaggero di sant’Antonio dicembre 2021
«Cari Edoardo e Chiara, sono una giovane donna di 31 anni, fidanzata da sette. Vi scrivo perché da qualche mese io e il mio fidanzato abbiamo deciso di sposarci. Ovviamente in me prevale la gioia per un passaggio di vita così bello e importante, ma non vi nascondo che c’è anche un po’ di timore che le cose possano non andare bene. Le mie paure nascono un po’ perché in questi sette anni ci sono stati dei passaggi faticosi nella nostra relazione che in un’occasione, un paio di anni fa, ci avevano portato anche a lasciarci per poi decidere di riprovarci poche settimane dopo. A questo si è aggiunto che dei miei carissimi zii, che per me sono stati come dei secondi genitori, hanno da poco annunciato la loro separazione. Entrambi, ai miei occhi di nipote, erano delle persone mature e impegnate in parrocchia con un percorso di fede significativo. A oggi faccio fatica a credere che mio zio, persona pacata, di cultura e di fede, abbia deciso di lasciare mia zia per un’altra donna. A volte mi chiedo come mai certe coppie, apparentemente senza grandi sforzi, restino tutta una vita assieme, mentre altre no. Mi domando se sia una questione di fortuna, oppure se dipenda da una relazione più tranquilla in cui non si pretende troppo dal partner, o da altro ancora. Vorrei sapere, in vista della scelta di sposarmi, quali sono gli elementi che permettono di capire se una coppia può durare nel tempo». (Una lettrice)
La risposta di Edoardo e Chiara
Imparare ad amarsi
Cara lettrice, ci regali un’occasione d’oro per condividere alcune conoscenze che andrebbero gridate dai tetti dei palazzi delle nostre città, per diffonderle a quante più coppie possibile.
Per risponderti, attingeremo a piene mani dai risultati dei decenni di studi sulla relazione di coppia svolti dai coniugi Gottman (psicologi americani, che hanno dedicato la loro vita alla ricerca sulla relazione amorosa, incontrando migliaia di coppie lungo gli anni).
Loro affermano che, sapendo a quali aspetti prestare attenzione, basta assistere a qualche minuto di discussione di una coppia che non si trova d’accordo su una qualche questione, per predire, con quasi totale certezza, se quella relazione è destinata a finire o meno.
Si è visto, infatti, che l’alta probabilità di separazione in una coppia è dovuta alla presenza, durante i momenti di confronto, di uno o più dei «quattro cavalieri dell’apocalisse», cioè: critica, difesa, disprezzo, ostruzionismo.
- Per critica si intende il lamentarsi, l’emettere giudizi sul proprio partner, il colpevolizzare invece che esprimere i propri sentimenti e bisogni in prima persona singolare, in modo propositivo. La persona che vive un’emozione spiacevole legata alla relazione dovrebbe dire i propri sentimenti, i propri bisogni affettivi e ciò che concretamente desidera che il partner faccia, invece che criticare.
- Per difesa s’intende quel modo di auto-proteggersi assumendo il ruolo di vittima e indignandosi dell’altro, invece di assumersi responsabilmente anche solo una parte del problema. La relazione di coppia è il risultato di una collaborazione in cui ognuno di noi ha piccole o grandi responsabilità. È bene concentrarsi su queste, invece che identificarsi con il ruolo passivo e auto giustificante di vittima.
- Il disprezzo è una forma più grave di critica, che nasce da una posizione di presunta superiorità (questo è l’indicatore più grave di divorzio). L’antidoto al disprezzo è costruire, all’interno della coppia, una cultura dell’apprezzamento e del rispetto reciproco.
- L’ostruzionismo è il ritiro emotivo dall’interazione: si verifica quando un partner è emotivamente distaccato, non condivide più, rimanendo chiuso nel proprio mutismo invece di imparare ad auto-consolarsi al fine di rimanere emotivamente connessa al proprio partner.
Ma tutto ciò non basta. Ci sono infatti ulteriori aspetti da tenere sempre presenti:
- Esprimere la rabbia a livello comportamentale, diventando aggressivi, non ha un effetto calmante, anzi, alimenta ulteriormente il vissuto di rabbia in sé e nell’altro, innescando una catena di reazioni sempre più violente.
- Le buone relazioni di coppia non sono quelle in cui si trovano soluzioni ai problemi, ma quelle in cui i membri continuano a parlarne e rimangono emotivamente disponibili. Si è calcolato che, solitamente, il 69 per cento dei problemi di coppia sono irrisolvibili, perché legati a differenze radicate. Quindi conta di più la capacità di riconnettersi emotivamente, che non quella di evitare di litigare.
- In una relazione in cui si sta bene vi è una espressione di apprezzamenti e sentimenti positivi in proporzione di 5 a 1 rispetto alle critiche e ai sentimenti negativi.
Cara lettrice, molti altri sono i dati empirici che ci offrono i coniugi Gottman, e ovviamente non possiamo elencarli tutti, ma ti auguriamo che tu insieme al tuo futuro marito possiate scoprire cosa funziona e cosa non funziona nella vostra relazione e umilmente mettervi in apprendistato dell’arte di amare ed essere amati.
Non ci si sposa perché ci si ama, ma per imparare ad amarsi.
Edoardo e Chiara Vian
Messaggero di sant’Antonio dicembre 2021
Mercatino delle meraviglie
Il gruppo che anima la Caritas parrocchiale è lieto di annunciare la prossima apertura del
MERCATINO DELLE MERAVIGLIE
dove ognuno potrà trovare bellissimi oggetti e accessori di abbigliamento da poter acquistare in vista dello scambio di doni del Natale.
Il Mercatino rimarrà aperto sabato 11 e domenica 12 dicembre prossimi presso la Sala del Ricamo.
Accoglieremo i visitatori prima e dopo ogni messa, a partire dalla prefestiva di sabato 11, per mostrare originali manufatti di qualità realizzati dalle volontarie del Centro Italiano Femminile appositamente per la nostra Caritas parrocchiale.
Il ricavato della vendita degli articoli sarà infatti destinato a supportare le attività a favore delle famiglie bisognose della nostra comunità.
Nazareth-Loreto: una sola casa
da IL MESSAGGIO DELLA SANTA CASA· OTTOBRE – NOVEMBRE 2021 – pag.284·
NAZARETH – LORETO UNA SOLA CASA
Guardiamo un po’ da vicino il mistero che la Sacra Scrittura ci dice riguardo a Maria di Nazareth (Luca 1,26-38).
Nazareth era una cittadina sconosciuta della Galilea e malfamata per quei pochi che ne avevano sentito parlare. Quattro case scavate nel fianco della montagna con poche centinaia di abitanti. Nessun accenno nella geografia dei libri sacri. Era un villaggio di poveri, e la povera gente, come si sa, non fa mai notizia, né allora né oggi!
Erano gli ultimi giorni di marzo. La primavera cominciava a farsi sentire. Faceva ancora un po’ freschino, ma i fiori cominciavano a sbocciare restituendo colore ai rami spogliati dal rigido inverno. Maria aveva già messo le pentole sul fuoco per preparare il pranzo. Era appena tornata dal pozzo. Era stanca. Il sudore le colava lungo il viso. Vo leva riposarsi, ma non riusciva a tenere ferma la testa. Le veniva in mente tutto ciò che aveva discusso con le sue vicine ai bordi del pozzo. Le cose non andavano bene: il loro paese era in mano agli stranieri che sfruttavano la gente. I ricchi, lecca piedi professionisti, si erano alleati con loro. Pur di conservare i propri privilegi, avevano venduto l’anima ai romani. La corruzione, il lusso e l’immoralità erano di casa nei loro palazzi. A farne le spese erano i poveri. La polizia non aveva nessun rispetto per la gente umile. Gli esattori delle tasse sembravano delle sanguisughe. Erano abili nello spillare quattrini. Il lavoro dei poveri non aveva alcun valore. Dappertutto erano evidenti i segni della fame, della miseria e della violenza. Persino nel tempio non c’era spazio per i poveri: i posti migliori erano assegnati ai pezzi grossi.
Erano queste le cose che la gente commentava a mezza voce, quando andava a prendere acqua alla fonte. Era l’argomento del giorno, soprattutto nella Galilea. Maria meditava tutte queste cose nel suo cuore. Sarà che Dio si era dimenticato del suo popolo? Sarà che era diventato sordo al grido degli oppressi? Le sembrava di diventare pazza, quando all’improvviso la sua casa fu invasa da una luce e si udì una voce: Gioisci Maria, il Signore è con te! Non avere paura. Nessuno vuole farti del male. Anzi, puoi ritenerti fortunata. Dio ti ha scelta per essere la Madre del Salvatore.
Sorpresa totale! Proprio lei, così piccola e insignificante, viene invitata ad essere la madre del liberatore dell’umanità. Non le sembrava possibile. Doveva esserci un errore. Forse l’angelo aveva sbagliato indirizzo. Capitava spesso. A Nazareth le case erano tutte uguali. Doveva trattarsi sicuramente della vicina che non desiderava altro che abbandonare quel posto malfamato.
– Come è possibile se non sono ancora sposata? Non avere paura, Maria! A Dio nulla è impossibile. Anche tua cugina Elisabetta, così anziana, è già al sesto mese di gravidanza, mentre tutti sapevano che non poteva aver figli.
Maria non aveva più scuse da trovare. Le tremavano le gambe, ma non ci pensò due volte. Si consegnò nelle mani di Dio.
– Ecco l’ancella del Signore. Si faccia di me secondo la tua parola.
E tutto questo, forse, può sembrare ovvio, o forse poco, ma le cose non stanno affatto così! Nulla è ovvio e neppure banale quando Dio e l’uomo si alleano!
Maria conosce bene, anzi benissimo, la cultura, le leggi e le tradizioni del suo popolo. Maria sa, perché lo avrà visto tante volte, la fine che fanno, tra la sua gente, le donne adultere, donne in attesa di figli fuori dal matrimonio: vengono uccise con la lapidazione in una pubblica piazza. Maria lo sa. E allora che fa? Si nasconde? Si trucca per non mostrare la verità che c’è nel suo grembo o del suo viso che diventa sempre più bello? Scappa? Chiede a Dio di cambiarle nazionalità? Chiede a qualcuno un modulo di protezione particolare? No, Maria continua la sua vita di povera ragazza di Nazareth. Continuerà a fare le pulizie di casa, andrà ancora a fare la spesa, andrà al pozzo a prendere l’acqua e dovunque andrà sentirà come un insopportabile alito pesante il chiacchiericcio delle sue amiche, delle comari sempre presenti e con la parola pronta a ferire: ma guarda quella lì, sembrava una santarellina e invece …!!!
Maria sa che ad ogni istante potrà essere acchiappata per i capelli, venire trascinata in una piazza e lì venire lapidata. Maria sa che il suo “Sì” al Signore le può arrecare la morte, una morte vera e non presunta. Eppure, va avanti con coraggio, a testa alta. non arretra di un millimetro, non cambia nulla delle sue abitudini, se ne infischia di quello che potranno pensare gli altri, lei sa di non avere fatto nulla di male, assolutamente nulla. Lei sa che con la sua povertà arricchirà la terra e la inonderà di pace e salvezza: il suo grembo contiene tutto questo. Lei sa pure che il Dio dei suoi padri non la abbandonerà perché è il Fedele.
Lei è pura, lei è generosa, lei ha imparato a guardare la vita da lassù, lei, ancora piccola, ha già imparato a volare alto, molto alto nella vita, guarda già la vita dalla stessa prospettiva di Dio. Maria donna di grande coraggio, di un coraggio sovrumano, capace di sfidare tutto e tutti. Lei non si ferma, non ha paura.
Quante cose ci insegna questa piccola donna, di un piccolo paesino, abitante una piccola casetta, che con una piccola parolina (“Sì”) … ha saputo cambiare alla grande il mondo intero, e per sempre.
Guardiamo, perciò a Maria per imparare cosa vuol dire avere coraggio di testimoniare l’amore di Dio, osare nella vita, avere ideali e valori nei quali credere, per i quali lottare e persino morire, se necessario.
Maria, non una piccola donnina dal collo storto, non una persona imbottita come un salame immangiabile con una fede bigotta, non una creaturina spaventata, non una chiacchierona di cose sacre …, ma grande donna di grande coraggio. Vera figlia dell’umanità, vera sposa di Dio. Vera creatura e vera Madre del suo Creatore. Che modello per ognuno di noi!
Maria persona straordinaria, diremmo “una bella persona” – un giorno suo Figlio, anche lui sarà “il pastore bello” -, persona che da duemila anni fa sognare e scuotere le nostre coscienze e ci spinge e stimola a sognare con i sogni di Dio.
A Nazareth, c’è un detto che tutti, ebrei, cristiani e musulmani, amano dire: “Le ragazze di Nazareth sono le più belle del mondo perché tutte un po’ somigliano a Maria! “.
Scena dell’Annunciazione Serie Jesus Mafa, Camerun (Africa)
Apertura Centro di Ascolto Caritas
COMUNICATO CARITAS PARROCCHIALE 14 NOVEMBRE 2021
In occasione della 5ª GIORNATA MONDIALE DEI POVERI i volontari della Caritas parrocchiale desiderano in primo luogo ricordare quanto riaffermato con forza da Papa Francesco nel messaggio dedicato a questa giornata:
“I poveri sono segno concreto della presenza di Gesù in mezzo a noi […] E’ necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro […] Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, […]ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli […] Quello che lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con se stesso”
Stimolata dalle parole del Papa e dalla lettura della realtà attuale la Caritas parrocchiale è lieta di comunicare che a partire da mercoledì prossimo, 17 novembre, riaprirà il Centro di ascolto parrocchiale, per ricevere le richieste di aiuto da parte di chi desidera assistenza dalla comunità.
Il Centro di ascolto parrocchiale sarà aperto ogni MERCOLEDÌ
presso la segreteria parrocchiale dalle 15 alle 17.
CHIUSO nei mesi di LUGLIO e AGOSTO.
Riapre il 6 settembre
Ricordando la raccolta programmata come di consuetudine per l’ultima domenica, il 28 novembre, la Caritas desidera anche fare due richieste specifiche: forniamo ai nostri amici assistiti prodotti per l’igiene personale, in particolare shampoo, bagnoschiuma e dentifrici e permettiamo a loro e ai loro bambini di festeggiare il Natale aggiungendo nel pacco anche dolciumi natalizi.
Chi di voi conoscesse poi la possibilità di procurare panettoni a un prezzo di favore è pregato di contattare i volontari della Caritas per fornire eventuali indicazioni.
Giornata Mondiale Giovani 2021
Ed eccoci a GET UP 20-21!
“Alzati ti costituisco testimone di quel che hai visto” At 26,16
Per i giovani tra i 18 e i 35 anni.
Ci vediamo sabato 20 Novembre alle 18:00 in via Covignano, 259 (Rimini)
Vi fermate a dormire in stile GMG? Poi la colazione ve la offriamo noi!
Il 21 Novembre mattina vivremo il momento conclusivo della GMG 2021 con la messa insieme animata dal coro di Pastorale Giovanile!
Contributo di 12€ se non ti fermi a dormire
Contributo di 15€ con pernottamento e colazione!
Necessario greenpass.
Vi aspettiamo!
Iscrizioni aperte sul sito https://chiesa.rimini.it/giovani/get-up-gmg-2021/
Saper dire addio
su AVVENIRE del 3 novembre 2021
«Il saper dire addio e l’aiutare a dirlo»
di Lello Ponticelli, sacerdote e psicologo
L’addio è «un’arte difficile che pochi sanno usare», ha scritto Umberto Folena, e che, però, possiamo imparare. In questi giorni, laici e credenti, siamo accomunati dal ricordo dei defunti e potrebbe essere importante confrontarci con la domanda sul «Come dire ‘addio?’ ». E «come aiutare gli altri a dirlo?».
Anni fa ci provò un vescovo, il compianto cardinale belga Godfried Dannels, in una bellissima lettera pastorale intitolata: «Dire Addio». Ne suggerirei la lettura a tutti. Poi mi metterei alla scuola di quanti, durante la pandemia, negli ospedali, nelle Rsa, nei pronto soccorso hanno aiutato le persone a prendere congedo da questo mondo facendo sentire il calore di una presenza, non certo sostitutiva dei familiari, ma importantissima e davvero straordinaria: non saremo loro mai grati abbastanza!
Addio: appena pronunci questa piccola parola ti sale un groppo in gola; struggente e malinconica, essa evoca il dolore che accompagna tutte le esperienze di distacco e perdita, soprattutto quelle di una persona cara.
Eppure, è una parola densa di mistero e di speranza che potremmo riscoprire nel suo dolce richiamo alla destinazione finale del nostro vivere e morire. Proviamo a pronunciarla quasi come un sussurro alle orecchie del cuore: «A Dio», ecco il tuo approdo! Da Dio a Dio: questo il nostro pellegrinaggio e non un vagabondare «dall’ostetrico al becchino» ( Vittorio Messori).
Dire addio mette in gioco ciascuno di noi, con tutto quello che siamo. E chiede di imparare a vivere l’esperienza delle nostre «perdite» e dei nostri lutti, senza far finta di niente, senza scorciatoie, ma accettando di fare un lungo e tortuoso cammino.
Si tratta di attraversare l’ora dello sconcerto come quella della rimozione; l’ora dello scoraggiamento e dell’apatia, come quella della protesta e della rabbia, magari anche nei confronti di Dio.
E ciascuno il cammino lo farà a suo modo, col suo ritmo e i suoi tempi, con un esito per nulla scontato, nella speranza di avere qualche solido punto di orientamento e, forse, una guida e una compagnia.
Ma spesso, proprio accettando di camminare a tentoni e in solitudine, può emergere forte il richiamo di Dio e della sua grazia, la mite fortezza della fede e il grido della preghiera, che possono condurre all’abbandono fiducioso, alla riconciliazione con se stessi, con la vita e finanche con la morte, con la possibilità di appellarla come «sorella».
Cosa abbiamo imparato finora sull’arte di dire addio? Cosa ci ha consegnato la pandemia su quest’arte? Forse abbiamo appreso che c’è bisogno di dedicare al prossimo più tempo e tanto ascolto, perché le pene dell’anima possano emergere ed essere dette a un cuore amico.
C’è bisogno di lasciare ai «fratelli tutti» la possibilità di poter esprimere fino in fondo quanto si portano dentro: di tristezza, di rimpianto, di colpa, ma anche di rabbia e forse anche di disperazione. Ognuno di noi ha potuto e può ancora imparare a stare accanto all’altro senza rispondere subito ai perché, ma spesso solo aiutando a reggerne l’urto.
Paradossalmente, proprio in un tempo dove la distanza fisica si è imposta, abbiamo imparato che la vicinanza spirituale affettuosa e sobria, si fa custodia del benessere dell’anima, del cuore e della mente; che offre il tepore e il ristoro di relazioni significative e autentiche, tanto più se coinvolgono anche la comunità nel suo insieme.
Per aiutare a dire «addio» e accompagnare le persone nell’ora del lutto, abbiamo imparato che talvolta sarà necessario sottrarre l’altro all’apatia e alla paralisi di cui è tentato, superando la paura di essere invadenti.
Chi piange la perdita di una persona cara ha bisogno di sapere che noi ci siamo, anche se non sappiamo dire niente ma soltanto ascoltare e comprendere, empatizzare e consolare, sostenere, all’occorrenza anche scuotere.
Per accompagnare nell’ora del lutto, sarà tanto importante lasciare che l’altro racconti e si racconti, mentre ritrova la strada di un’apertura nei confronti del prossimo, ponendo gesti di generosità e carità, in memoria dei suoi cari (Enrico Parolari).
Imparare a dire addio e aiutare a dirlo, affratella. È un’arte preziosa che anche Gesù ha imparato, vissuto e poi insegnato: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io». (Gv 14.1-3)
La cresima? No ai genitori che minacciano il parroco
Roberta Vinerba – su AVVENIRE 10 ottobre 2021
La cresima? No ai genitori che minacciano il parroco
L’ennesima telefonata di una catechista al parroco per dire la maleducazione con cui è stata trattata dalla mamma di un bambino che pretendeva un certo orario di catechismo. L’ennesima.
Nulla di nuovo: lo sa bene chi presta servizio in una qualunque parrocchia. La maleducazione, l’arroganza, le pretese dei genitori sembrano crescere sempre di più, dal Covid in qua la peggior umanità sembra aver preso il sopravvento.
Abbiamo celebrato (e stiamo tuttora celebrando) tante cresime, per recuperare i due anni di restrizioni con tutta la comprensione per il tempo eccezionale che abbiamo vissuto.
Arrivano in parrocchia genitori di ragazzi mai visti in questi due anni (i nostri educatori e catechisti non si sono mai fermati, inventandosi di tutto per dare una qualche continuità al loro servizio e stare comunque vicino ai ragazzi nel rispetto di tutte le normative e di tutta la prudenza necessaria e dovute nel tempo di pandemia).
Arrivano, dicevo, e pretendono il sacramento. Non gli importa nulla di cosa sia, ma pretendono che il figlio, la figlia, celebri la cresima. Non li vedi mai a Messa, sottolineo mai, eppure pretendono sacramenti e modalità. E si relazionano con fare aggressivo e maleducato con gli educatori come fossero gente di serie B perché stanno in parrocchia, come se fossero lì per guadagnarci qualcosa.
Il catechismo non è nell’orario comodo (il calcio, la musica, l’atletica, anche se fossero a mezzanotte vanno bene lo stesso, il catechismo deve essere in orario tale da mettere d’accordo trenta mamme) e se ricordi loro che i catechisti sono volontari con famiglia, lavoro e altro, e che se volessero dare una mano c’è posto anche per loro, allora no, allora hanno altro da fare, gli altri invece, si sottintende, stiano al loro servizio.
Accade anche che, dopo il sacramento della comunione o della cresima, l’educatore che per almeno due anni si è preso cura del figlio, che settimanalmente ha inviato ai genitori informazioni ed altro su whatsapp (ai quali messaggi tanti neppure si degnano di rispondere), si trovi bloccato dal genitore. Senza una parola di ringraziamento o anche senza neppure dire: non mi interessa, non mi importuni più.
Maleducati e arroganti, pensano alla parrocchia come ad un distributore di non si capisce cosa: i sacramenti sono un dono da accogliere nella fede. Non sono utili a nulla (se non alla vita eterna, certo): dunque perché ‘volerli’?
Non capisco questo affollarsi a chiedere sacramenti manifestando chiaramente il più totale disinteresse per le cose di Dio.
Accade di vedere bambini smarriti e a disagio nell’assistere allo sproloquio di un padre che sbatte i pugni davanti al parroco che cerca di spiegargli che il figlio, non avendo mai messo piede in chiesa o in un gruppo di catechismo, mai visto prima, non può celebrare la cresima solo perché ne ha l’età – conosciamoci, dice il parroco, camminiamo un po’ insieme, inseriamolo in un gruppo dove possa fare amicizia e in primavera vediamo.
Il padre come risponde? «Vado dal Vescovo, io ho tante conoscenze nella chiesa, stia attento».
No, non esagero, è accaduto un mese fa, ma so che scene simili accadono un po’ ovunque. Lo dichiaro: sono amareggiata, stupita da tanta maleducazione e arroganza, preoccupata di come ci troviamo dopo due anni nei quali avremmo dovuto riscoprire il valore delle relazioni.
Non sto certamente dimenticando i tanti genitori meravigliosi che fanno squadra con i catechisti, con gli educatori, che si relazionando in maniera civile e serena, che si confrontano educatamente.
Non li dimentico e sono tanti, forse la maggioranza: si sa, una foresta che cresce non fa rumore, un albero che cade fa un grande fracasso. Certo, questi genitori maleducati e presuntuosi, oltreché pretenziosi, ne fanno tanto.
Però senza dimenticare i tantissimi genitori ‘normali’, credo però giusto offrire anche questo spaccato di vita di parrocchia perché siano dette anche le umiliazioni e le ingiustizie patite da tanti catechisti ed educatori a causa dell’imperante maleducazione di alcuni genitori.
Perché dobbiamo essere cortesi con tutti, ma mai silenti davanti all’arroganza.
Abbiamo un tesoro da donare, non perle da dare ai porci.
PARROCCHIA SANT’ANDREA DELL’AUSA
detta del “Crocifisso” – Diocesi di Rimini
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47923 Rimini (RN)
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